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Quando si parla di “correttezza di linguaggio” si storce spesso il naso; perché dare tanta importanza a come diciamo una cosa, quando l’importante è il suo significato?
Certo, è una riflessione comoda e per nulla sbagliata quando si tende ad usare parole artificiose o altisonanti per descrivere situazioni che sarebbero molto più semplici da spiegare parlando, per così dire “come mangiamo”. Ma lo stesso discorso non può essere fatto per il mondo dell’informazione.
Una riflessione che nasce dall’opuscolo distribuito dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri intitolato “linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT”. Per chi se lo stesse chiedendo, anche nel titolo troviamo uno di quegli acronimi cosiddetti salvavita per i comunicatori, che sta per Lesbica, Gay, Bisessuale e Transessuale. L’opuscolo spiega come trattare certe tematiche con il giusto lessico, ed è rivolto ai media; approfondisce il linguaggio e il suo uso, per rendere più consapevole chi scrive dell’informazione che sta dando, e far sì che venga diffuso un lessico appropriato insieme alla conoscenza di un argomento.
Perché dunque fare tutto ciò? Non basterebbe chiamare le cose col proprio nome? Abbiamo forse paura di essere additati come “politically uncorrect” e ci proteggiamo così? No, non è questo.
Come scritto in precedenza, questo è un discorso che può essere fatto per le chiacchiere tra amici, ma non per chi scrive. La storia della linguistica ci insegna che la stampa è stata un veicolo di trasmissione della lingua italiana di gran lunga superiore alla scuola. Come dice De Mauro (1991) infatti, rispetto a quest’ultima i mezzi di comunicazione, soprattutto dopo il riconoscimento ufficiale della professione giornalistica del Novecento e la conseguente perdita di regionalismo nel suo scritto, non è incappata nell’ostacolo dell’analfabetismo, perché ha sempre usato un linguaggio diretto a ceti medio- alti ma comprensibile a tutti. È dalla stampa, e dai media poi, che si è creato e si va creando quell’italiano “neostandard” (Lorenzetti) che oggi parliamo e che è in fase di evoluzione continua. Il miglior mezzo di diffusione ed evoluzione della lingua, in pratica, siamo noi.
Evoluzione sì, perché la lingua va a braccetto con la società. Non è un caso che una delle rivoluzioni linguistiche italiane dei primi anni novanta sia stata la battaglia sulla discriminazione linguistica dei sessi. Dopo il boom dell’Ottanta, infatti, una delle poche cose (in teoria) che ancora non si era messa in pari con la condizione della donna era la lingua italiana. E di questo, che ci si creda o meno, illustri linguisti come Sabatini hanno a lungo discusso, per capire come ovviare alla tendenza maschilista – intesa per carità solo in senso tecnico – della lingua italiana. È così che si è messo in discussione il modo di parlare di professioni (avvocato, medico, eccetera), l’uso di vocaboli come “uomo” in senso generico, e così via. Solo chiacchiere sterili? No, se leggete o ascoltate i media di oggi, i discorsi dei capi di Stato: oggi ci facciamo attenzione, che ci piaccia o no, al di fuori di qualsiasi ideale. La cosa ha di certo provocato qualche naso storto (parole come “la ministra” sono ancora difficili da digerire, e le lungaggini dei discorsi pieni di lui/lei non sono certo piacevoli), ma il cambiamento sociale e quello linguistico sono andati, ancora una volta, a braccetto.
Insomma, come scriviamo e comunichiamo in fondo è una responsabilità che va oltre il mettersi al sicuro per future polemiche, e il vademecum LGBT la dice lunga. Perché in teoria saremmo chiamati a una comunicazione responsabile e chiara. E se quando scriviamo su una vicenda tentiamo di informarci su di essa il più possibile, così dovremmo fare con i termini che usiamo per cose che, diciamocelo in sincerità, non ci sono note.
Abbiamo una responsabilità, in tempi in cui si parla di sensibilizzazione ed evoluzione culturale. Non sottovalutiamola e lasciamo ad altri le opinioni, le chiacchiere e il linguaggio da bar.
Scrittura consapevole, non solo ''˜politically correct'....

Quando si parla di “correttezza di linguaggio” si storce spesso il naso; perché dare tanta importanza a come diciamo una cosa, quando l’importante è il suo significato?
Certo, è una riflessione comoda e per nulla sbagliata quando si tende ad usare parole artificiose o altisonanti per descrivere situazioni che sarebbero molto più semplici da spiegare parlando, per così dire “come mangiamo”. Ma lo stesso discorso non può essere fatto per il mondo dell’informazione.
Una riflessione che nasce dall’opuscolo distribuito dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri intitolato “linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT”. Per chi se lo stesse chiedendo, anche nel titolo troviamo uno di quegli acronimi cosiddetti salvavita per i comunicatori, che sta per Lesbica, Gay, Bisessuale e Transessuale. L’opuscolo spiega come trattare certe tematiche con il giusto lessico, ed è rivolto ai media; approfondisce il linguaggio e il suo uso, per rendere più consapevole chi scrive dell’informazione che sta dando, e far sì che venga diffuso un lessico appropriato insieme alla conoscenza di un argomento.
Perché dunque fare tutto ciò? Non basterebbe chiamare le cose col proprio nome? Abbiamo forse paura di essere additati come “politically uncorrect” e ci proteggiamo così? No, non è questo.
Come scritto in precedenza, questo è un discorso che può essere fatto per le chiacchiere tra amici, ma non per chi scrive. La storia della linguistica ci insegna che la stampa è stata un veicolo di trasmissione della lingua italiana di gran lunga superiore alla scuola. Come dice De Mauro (1991) infatti, rispetto a quest’ultima i mezzi di comunicazione, soprattutto dopo il riconoscimento ufficiale della professione giornalistica del Novecento e la conseguente perdita di regionalismo nel suo scritto, non è incappata nell’ostacolo dell’analfabetismo, perché ha sempre usato un linguaggio diretto a ceti medio- alti ma comprensibile a tutti. È dalla stampa, e dai media poi, che si è creato e si va creando quell’italiano “neostandard” (Lorenzetti) che oggi parliamo e che è in fase di evoluzione continua. Il miglior mezzo di diffusione ed evoluzione della lingua, in pratica, siamo noi.
Evoluzione sì, perché la lingua va a braccetto con la società. Non è un caso che una delle rivoluzioni linguistiche italiane dei primi anni novanta sia stata la battaglia sulla discriminazione linguistica dei sessi. Dopo il boom dell’Ottanta, infatti, una delle poche cose (in teoria) che ancora non si era messa in pari con la condizione della donna era la lingua italiana. E di questo, che ci si creda o meno, illustri linguisti come Sabatini hanno a lungo discusso, per capire come ovviare alla tendenza maschilista – intesa per carità solo in senso tecnico – della lingua italiana. È così che si è messo in discussione il modo di parlare di professioni (avvocato, medico, eccetera), l’uso di vocaboli come “uomo” in senso generico, e così via. Solo chiacchiere sterili? No, se leggete o ascoltate i media di oggi, i discorsi dei capi di Stato: oggi ci facciamo attenzione, che ci piaccia o no, al di fuori di qualsiasi ideale. La cosa ha di certo provocato qualche naso storto (parole come “la ministra” sono ancora difficili da digerire, e le lungaggini dei discorsi pieni di lui/lei non sono certo piacevoli), ma il cambiamento sociale e quello linguistico sono andati, ancora una volta, a braccetto.
Insomma, come scriviamo e comunichiamo in fondo è una responsabilità che va oltre il mettersi al sicuro per future polemiche, e il vademecum LGBT la dice lunga. Perché in teoria saremmo chiamati a una comunicazione responsabile e chiara. E se quando scriviamo su una vicenda tentiamo di informarci su di essa il più possibile, così dovremmo fare con i termini che usiamo per cose che, diciamocelo in sincerità, non ci sono note.
Abbiamo una responsabilità, in tempi in cui si parla di sensibilizzazione ed evoluzione culturale. Non sottovalutiamola e lasciamo ad altri le opinioni, le chiacchiere e il linguaggio da bar.
