LE REGIONI SONO MORTE, VIVA LE REGIONI!

- di Giuseppe Pagnotta - Credo che appassioni poco il dibattito ex post (tale per via della censura stile “MinCulPop” applicata dalla quasi totalità dell’apparato mass-mediatico fino al giorno delle votazioni) che si sta sviluppando sul significato da attribuire al voto del 17 aprile, è roba da politologi puri e, quindi, pare rispettoso fare due passi indietro.
Certo è che l’intervento “cazzuto” del premier in carica è l’ennesima furberia che si è potuto concedere in assenza di avversari. Per un politico è davvero curioso attribuirsi il merito di non aver fatto votare. Che so, è come se un giocatore invitasse i tifosi a non vedere la partita, come se un prete fomentasse i fedeli convincendoli a non andare a messa!
E che dire dell’anatema che viene continuamente lanciato da alti rappresentanti istituzionali contro coloro che, sostenendo il referendum, hanno fatto bruciare qualcosa come 300 milioni di euro! Come dire, “volete parlare? Ecco quanto vi costa!”. Peccato che la data del referendum l’abbia decisa un Esecutivo che, pur di evitare l’accorpamento con le elezioni amministrative e per paura del raggiungimento del quorum, non ha esitato a fissare una data diversa. Roba da responsabilità erariale!
Ma tant’è. Meglio rimanere nel limbo dell’ingenuità perché, in caso contrario, bisognerebbe immaginare una ben congegnata ed oleata macchina della disinformazione (rectius, della non informazione) che diventa un’efficacissima arma di “distrazione di massa” in mano ad uno (l’uomo solo al comando) che della comunicazione ha fatto la sua missione di vita.
Tuttavia non è sano dilungarsi sulla premessa di cui sopra, si verrebbe tacciati subito di dietrologia o, peggio ancora, di complottismo.
C’è, invece, un aspetto del voto del 17 aprile sul quale poche parole si sono spese ma che meriterebbe una più attenta riflessione, ossia il ruolo che le Regioni hanno giocato prima promuovendo il quesito referendario e poi facendolo naufragare.
Forse nell’ansia di ricercare vincenti e vinti, specie all’interno del partito di maggioranza relativa, ci si dimentica che il referendum del 17 aprile non è stato promosso dal basso attraverso la classica raccoltadi firme, bensì da 10 Consigli regionali (solo in un secondo momento una delle Regioni è venuta meno)che, nel settembre 2015, hanno espresso una precisa ed inequivocabile volontà formulando diversi quesiti, uno solo dei quali ha passato il vaglio di costituzionalità; nel frattempo, su diversi temi oggetto delle richieste referendarie, il Governo aveva provveduto con norme ad hoc contro le quali è stato sollevato un conflitto di attribuzioni sul presupposto che l’Esecutivo avrebbe legiferato su materie di competenzaregionale. Particolare di non poco conto: la Consulta ha respinto il ricorso senza entrare nel merito poiché i rappresentanti di 5 Consigli regionali (Basilicata, Campania, Liguria, Puglia e Sardegna) sono stati ritenuti «non legittimati» a sollevare il conflitto di attribuzione in quanto sprovvisti delle delibere consiliari che li autorizzavano a stare in giudizio (sic!).
E poi? Che cosa è successo? Tanto rumore per nulla? La risposta è affermativa.
Sarebbe stato difficile per i Consigli regionali interessati - e, quindi, per i rappresentanti eletti in seno agli stessi - presentarsi agli elettori dicendo “scusate abbiamo sbagliato, il referendum è inutile!”. Quale modo migliore per far naufragare il referendum se non quello di nascondersi dietro il patologico astensionismo, addirittura invocato da vertici poco avvezzi alla cultura istituzionale.
I consiglieri regionali sanno come raccogliere il consenso, sono autentiche macchine di preferenze, sono gliunici ormai a dover competere con un sistema di scelta diretta. Eppure si ha l’impressione che non abbiano valutato correttamente le conseguenze del fallimento del referendum.
La questione non è solo di rapporti di forza all’interno del partito di maggioranza relativa, come la vulgatava predicando in queste ore. La vera posta in gioco è, a ben vedere, il ruolo delle Regioni stesse all’interno di un quadro costituzionale che marginalizza sempre più le stesse, anche a causa dellasempre maggiore diffidenza dello Stato centrale verso tali Enti (e, ovviamente, verso i relativi rappresentanti) giudicati nella migliore delle ipotesi come inefficienti, inutili centri di spesa e fonti di sprechi.
Per decenni si è teorizzato il decentramento amministrativo, da qualche tempo la parola d’ordine è accentramento, ritorno al passato, ad una struttura ottocentesca fondata su un centralismo burocratico che si traduce, politicamente, in pochi centri decisionali e quindi maggiormente controllabili.
E cosa fanno le Regioni? Beh, quello che hanno fatto con il referendum. Si dividono, obbediscono, fanno finta di reagire, generando così un processo di autocastrazione alimentato anche dall’atavica sfiducia nei confronti di una classe di rappresentanti considerata come la meno affidabile da tutti i punti di vista. E, piuttosto che far quadrato attorno a un Governatore che ha tentato di difendere (a modo suo, magari spinto da qualche ambizione personale sì, ma anche in questo con coerenza!) le prerogative ed i confini dei poteri tra Stato e Regioni, lo lasciano in pasto agli aguzzini.
Questo referendum ha decretato la sconfitta del regionalismo, ha anticipato gli scenari che si riproporranno quando ci si dovrà esprimere sulla riforma costituzionale voluta dall’Esecutivo, ha ridisegnato i confini tra poteri a scapito delle Regioni, è un altro duro colpo per la credibilità e la coerenza dei rappresentanti delle assemblee regionali, forse convinti che tanto in Italia si debba cambiare tutto perché tutto resti come prima. E quindi? Le Regioni sono morte, viva le Regioni!